"Dai confini con il Canada sino a Boston a piedi, senza soste. Una sfida mortale, con un regolamento implacabile, per cento volontari: un passo falso, una caduta, un malore... e si viene abbattuti. Ma chi riesce a tagliare il traguardo otterrà il Premio. Tra i partecipanti, fra cui spicca il sedicenne Garraty, si creano rapporti di sfida, di solidarietà e di lucida follia, lungo il terribile percorso scandito dagli incitamenti della folla assiepata ai margini della strada."
Questa è la trama del libro riportata in copertina, io tendo ad aggiungere troppi dettagli inutili. Allora, prima di iniziare, onde evitare "Gyaaaaaah" vari, ne faccio uno lungo adesso.
GYAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAH
Ecco, possiamo iniziare.
Questo libro è uno di quelli che King scrisse in incognito con lo pseudonimo di Bachman. Non è un libro dalla trama contorta e non è difficile da leggere.
In questo continuo viaggiare, no, camminare, pagina dopo pagina, dentro il cervello di Ray Garraty, sembra quasi di percorrere noi quella lunga, lunga, interminabile strada.
E per me che sono dannatamente pigra un romanzo del genere è quasi un incubo che si avvera.
Ma scherzi a parte, la maggior parte dei personaggi sono anonimi, di alcuni non si conosce neppure che nome abbiano e questo non perché King ha fatto un lavoraccio, ma perché probabilmente a Garraty non interessava affatto conoscerli, non ne aveva il tempo, o forse ha preferito di no. Perché farsi degli amici fra i Marciatori è come assumere giorno dopo giorno goccie di arsenico.
Logorante, letale, doloroso.
Molto doloroso.
Ecco perché chilometro dopo chilometro i morti crescono di numero senza essere neppure citati. O peggio, nel caso di quelli che il lettore ha modo di conoscere e di affezionarsi, muoiono e basta.
Non c'è la tragedia, il pianto, la tristezza.
Morto.
Stop, si va avanti.
Chi si ferma è perduto.
Camminare, camminare, camminare...
Forse l'unico personaggio che ha capito davvero come ci si comporta in queste situazioni è Stebbins, il ragazzo misterioso, quello che non cerca nessuno, ma che al tempo stesso si rende oggetto di attrazione. Di primo acchito avrei detto Barkovitch, in realtà, ma lui, no... il suo è un altro modo ancora più masochistico di affrontare il cammino, perché odiare da forza, farsi odiare indebolisce inesorabilmente.
E parliamo di McVries, lui prende la Marcia così come viene. Parla, simpatizza, aiuta e lascia andare, continua a camminare e non capisci poi molto di quello che gli passa per la testa, con tutti i discorsi assurdi che partorisce con quel suo cervellino fino.
E Olson... Olson mi ha colpito molto, ma non tanto per il suo carattere, quanto per quello che fa.
Faccio una digressione da giappominkia
(questo termine è entrato ormai nell'uso comune, anche se in realtà non mi piace abbia connottati così negativi. Tutti si è stati giappominkia, no? Io ho certe ricadute...), quando presi La Lunga Marcia in biblioteca, insieme a "Il conte di Montecristo" e "I miti nordici", fu un caso che lo addocchiassi fra i volumi di King.
Io cerco di evitare gli horror, suscitano in me un'attrazione e una repulsione letale. Poi la notte dormire diventa un dramma. Ma quel giorno qualcosa mi fece leggere la trama di quel libricino. E già il binomio distopia-gioco mortale mi affascina, ma mentre legiucchiavo più mi veniva da pensare a Battle Royale. Solo che era diverso...
Insomma, Nanahara Shuya è un sognatore, Ray Garraty è un romantico rassegnato. Fra le righe il suo futuro appare grigio, mentre Shuya trama la ribellione.
Garraty non sa neppure chi diavolo gliel'ha fatto fare a partecipare alla marcia, insomma, è una persona che probabilmente si è disillusa del tutto sul fatto che le cose possano cambiare. Non protesta più di tanto contro la realtà in cui versa l'America.
Il suo partecipare è probabilmente un inconscio desiderio di morte, simile a quello di tutti gli altri.
Comunque, leggi e leggi, arriviamo alla scena di Olson e lì ho chiuso il libro e sono andata a controllare.
Sì, pare che Battle Royale fosse ispirato proprio a questo libro.
Insomma, Mimura!!
No, non dirò altro.
Ci sarebbero tante di quelle analogie da fare, ma magari più avanti in un altro post, perché qui dovevo solo recensire e invece mi sono data di nuovo ai deliri.
Tutto questo sproloquio qui per dirvi qual'è stato uno dei motivi che mi ha spinto a continuare a leggere. E sarà infantile, ma è stato un bene.
No, forse no, sono un filino dipendente e mi piace tenerlo sotto mano.
Probabilmente poi ho una certa vena sadica, ma non troppo, per adorare storie simili, ma a parte tutte le preferenze personali, i vaneggiamenti che posso fare, persino le smancerie che McVries riserva a Garraty che hanno alimentato i deliri del mio cervellino,
La Lunga Marcia è un libro che vi consiglio caldamente.
Il finale della storia ha suscitato parecchie critiche fra i lettori.
C'è chi lo ritiene deludente, c'è chi no, personalmente mi sembrava ovvio che finisse a quel modo, anche se c'è sempre quel qualcosa di sovrannaturale che ti lascia sulle spine e costringe il cervello a farsi qualche altro viaggio mentale, ma questi ve li risparmio.
Non vi risparmio invece la citazione di McVries.
«Continua a ballare così per sempre con me, Garraty, e non mi stancherò mai. Strofineremo le scarpe sulle stelle e ci appenderemo a testa in giù alla luna.»
In realtà se scrivessi ogni frase che mi ha colpito scriverei un libro a parte su di lui...
Beh, credo di aver concluso.
Leggetelo, leggetelo, leggetelo!!
Al prossimo post!